Le donne e il mal di testa
 

 

Estratto da:
Franco Mongini
Le donne e il mal di testa
© 2001 by Marsilio Editori ® s.p.a. in Venezia
Prima edizione: settembre 2001

 

 


PREFAZIONE


  Scrivere un libro in cui si raccontano storie di pazienti pone un medico di fronte ad alcuni problemi. C’è anzitutto il dovere di rispettare il segreto professionale, esigenza che ritengo sia qui stata ampiamente soddisfatta: nomi, luoghi, circostanze e caratteristiche fisiche delle persone sono stati alterati in modo tale da rendere assolutamente impossibile l’individuazione delle protagoniste. In qualche caso, eventi occorsi a diverse pazienti sono stati riferiti a una singola persona. Al contrario, in altri casi, le vicende narrate da una paziente hanno fornito lo spunto di due narrazioni separate. Tutto ciò non impedisce che quanto viene qui riportato mantenga un fondamentale nucleo di verità. Certe vicende, specie le più incredibili, non si possono inventare.   Rimane quindi un altro problema. Proprio la sostanziale veridicità di quanto è narrato in questo libro fa sì che più d’una delle mie pazienti vi si potrebbe riconoscere. E poiché i loro racconti sono scaturiti da un rapporto di totale fiducia che esse mi hanno concesso, sarebbe per me molto spiacevole se anche una sola di loro fosse colta dal dubbio che in qualche modo io abbia abusato di questa fiducia. Perciò, per quanto ho potuto, ho cercato di rintracciare tutte quelle donne che hanno dato spunto alle vicende narrate, perlomeno a quelle più complesse e circostanziate, e ho parlato loro del mio progetto. In alcuni casi ho perfino avuto la possibilità di sottoporre alla lettura e al giudizio delle interessate il brano che le riguardava. Le reazioni sono state tutte molto positive. In alcuni casi, addirittura compiaciute. Ciò naturalmente mi ha gratificato, non solo perché non si sono frapposti ostacoli al compimento di quest’opera, ma anche perché ho interpretato il fatto come un’ulteriore prova di fiducia. In particolare mi ha colpito una frase che più di una paziente ha espresso a proposito: «Se può essere utile, sono contenta che venga pubblicato.» Una reazione che mi ha lasciato ammirato.   Le motivazioni che inducono un autore a scrivere un testo sono sempre più di una. Inevitabilmente, c’è anche il desiderio, più o meno narcisista, di rendere pubblica la propria esperienza. Certamente, ho anche avuto la speranza o l’illusione che qualcuno potesse trarre da quest’opera qualche beneficio e sono rimasto colpito dalla spontaneità e dall’immediatezza con cui quest’idea è stata espressa da alcune delle mie pazienti. Di questo sono loro grato. D’altra parte, non mi stupirei affatto se anche donne che io non ho mai visto si riconoscessero in alcune delle storie qui raccontate. E ciò potrebbe effettivamente risultare loro utile, tanto più se, oltre che di mal di testa, soffrissero di quegli altri «demoni» che spesso ad esso si accompagnano e che ho qui descritto. E anche nel caso in cui soffrissero solo di questi ultimi.

SI FA PRESTO A DIRE MAL DI TESTA

  «Il mio male ce l’ho qui.» La giovane donna appoggia il palmo della mano sulla fronte, poi lo fa scorrere verso l’alto e sulle tempie. «Qualche volta però comincia qui» e si tocca la nuca, «e poi viene in avanti. Va a periodi... certe volte possono trascorrere una o due settimane senza che io ne soffra; poi, magari, mi viene ogni giorno. In primavera e autunno è peggio, per lo più... Le mestruazioni non sembrano interferire. Ma se sono tesa certamente peggiora! Il dolore in genere non è forte... è un’oppressione, mi stringe, qualche volta batte un po’. Se è più forte mi viene un po’ di nausea ma non vomito mai.»
  «Il mal di testa? Ce lo ho da sempre!» esclama una signora vicina ai cinquanta. Il viso, regolare, appena segnato da una lieve rugosità della fronte e intorno agli occhi, è ancora bello. L’espressione dello sguardo appare pensosa, forse rattristata, il corpo lievemente appesantito. «Non ricordo quando è cominciato. In genere non è forte e mi permette di condurre una vita normale. Nei giorni buoni è solo un senso di oppressione al capo, un po’ dappertutto... solo quattro o cinque volte al mese il dolore è molto intenso, lo sento che pulsa attorno all’occhio. Mi prende anche la nausea, qualche volta vomito... non posso lavorare, devo sdraiarmi al buio... Allora prendo qualcosa, quello che capita. Ormai ci sono abituata: tanto so che non c’è niente da fare.»
  «Intendiamoci: di mal di testa ho sempre sofferto, ma quello era un mal di testa “normale”... come lo hanno tutti, penso. Sì, certo, l’avevo molto spesso ma... come dire... non ci facevo caso.» Chi mi parla è una paziente di trent’anni, sposata, madre di famiglia, imprenditrice. Si trova in un evidente stato di ansietà. Durante le pause del colloquio mordicchia di frequente il labbro inferiore o, senza farci caso, stringe con forza i denti. Le mani sono in perenne movimento: le contorce, stira le dita, si rassetta i capelli. Il polso è frequente, ogni tanto avverto un’extrasistole. Le palme sono sudaticce; chiazze di rossore disegnano mutevoli geografie su collo e spalle. La donna prosegue il suo racconto: «Da un po’ di tempo però ho un altro male alla testa, questo non è “normale”, è diverso... È difficile da definire. Può iniziare attorno all’occhio, oppure qui, sullo zigomo. Quando è più intenso si diffonde a tutta la guancia. In genere solo da questo lato, ma qualche volta anche dall’altro. Spesso è solo un fastidio... mi tira, mi sento gonfia, mi dà un formicolio... è difficile da descrivere. Altre volte è un vero dolore, e allora può diffondersi al collo, alla spalla... magari mi comincia a formicolare anche il braccio. Qualche volta faccio fatica a camminare. Allora mi compare anche un ronzio alle orecchie e ho le vertigini. Ho già fatto molti esami, tutti negativi. Sono stata da molti medici. L’otorino ha detto che potevano essere i denti e mi ha mandata dal dentista. Il dentista mi ha messo una placca in bocca e sono peggiorata. Il medico di base ha sospettato un’artrosi cervicale: mi ha dato degli antinfiammatori: non mi hanno fatto niente. Sono molto preoccupata... Vorrei sapere di cosa soffro! Qualche cosa deve pur essere! Mi guardi! Guardi qui, la guancia e lo zigomo di destra! Mi fa male, ma non è questo il punto. Vede che questo lato è diverso dall’altro? Io prima non ero così. Guardi come è scavata la guancia... me la sento, come dire... cader giù. E guardi lo zigomo, come sporge! Le assicuro. È da un po’ di tempo che lo noto, sta peggiorando... E poi lo sento io, che sto diventando storta! Sa, ho smesso di parlarne... il medico di famiglia non mi ascolta... mio marito mi dà della matta.»
  Dunque, uno dice «mal di testa», e sa o crede di sapere cosa si intende. Invece, parlare di «questo male» significa penetrare in un universo di malattia estremamente variegato, dai confini labili e incerti. I mal di testa più comuni sono la cosiddetta cefalea tensiva e l’emicrania. Si distinguono, tra l’altro, per la qualità del dolore: se il paziente dice «mi stringe », «mi opprime», «è una cappa, è come un cappello stretto », il pensiero corre alla cefalea tensiva, se invece si lamenta che «batte», «martella», «perfora», potrebbe soffrire di emicrania. Così, se c’è nausea si tratta più probabilmente di emicrania. Ma in realtà le cose non sono così semplici. Spesso i pazienti accusano tutti e due i tipi di dolore, che talvolta si alternano, talvolta si sovrappongono. Inoltre, la nausea può comparire anche in quelle che paiono crisi di cefalea tensiva. Si tratta allora di uno stesso male che cambia via via le sue caratteristiche, oppure si tratta di mali diversi? Anche il modo che ha il paziente di porsi di fronte al suo dolore può mutare in modo quasi bizzarro. Molti pazienti, specie di sesso femminile, parlano del loro «solito» mal di testa, che sopportano da anni senza aver mai fatto veramente nulla di concreto per combatterlo. Lo accettano con atteggiamento fatalistico, lo stesso con cui accettano o hanno accettato il dolore del parto, la maternità, le bizze dei figli o le sfuriate del marito. «Un mal di testa normale», così si esprimono, «come hanno tutti.»
  Anche il fatto che nel tempo si faccia più frequente viene attribuito alla natura delle cose, alla propria condizione di donna, al trascorrere del tempo. Vanno avanti con gocce e pillole... «Ma poche, per carità, cerco di resistere!» In qualche caso quasi si direbbe che al loro male siano affezionate, che esso, dopo tutto, rappresenti un’ancora di salvezza, o, quanto meno, come vedremo, un mezzo di difesa. In parte, questo atteggiamento consegue a una opinione generalizzata e consolidata, che vede nel mal di testa della donna un destino, se non una condanna, assimilabile alla biblica sentenza: «Tu partorirai con dolore».
  Quando però compare un altro male alla testa, oppure se il dolore d’esordio è comunque «diverso», «strano» rispetto a quello usualmente definito «normale», la paziente può cadere in profonda ambascia. Questo dolore non può più essere razionalizzato e metabolizzato con i modi del comu- ne sentire, con le solite considerazioni rassegnate e, dopo tutto, consolatorie: «Lo hanno tutti, chi più, chi meno.» «Tanto, non si può fare niente...»
  Il nuovo male invece non solo è fonte di sofferenza, ma si insinua nella mente come un’idea ossessiva, un’angustia permanente. «Perché mi è comparso?», «Che cosa mi sta accadendo?» Spesso il dubbio angosciante è di avere «qualcosa di brutto», un male incurabile che si ha persino timore di chiamare col suo nome, quasi che a farlo aumentino le probabilità che il sospetto si avveri. A fomentare questo dubbio è il fatto che quel dolore non rispetta le regole. Nell’immaginario collettivo, «mal di testa» evoca l’idea di una sofferenza localizzata in determinate zone del capo: fronte, tempie, nuca. Di frequente però il male si diffonde in altre parti per le quali, in genere, non si fa riferimento al mal di testa: guance, zigomi, collo, spalle, talvolta persino un braccio o tutte e due le braccia possono essere interessati da dolore, formicolio, impaccio motorio. Altre volte ancora il disturbo si localizza solo in queste zone.
  Ma ad angosciare la paziente è anche la qualità del male, spesso descritto in modo quasi pittoresco: «mi tira», «mi brucia», «mi gonfia», «mi sento diventare storta»... Si tratta di donne di ogni età, frequentemente giovani, talvolta molto giovani.
  La storia di queste pazienti è spesso ripetitiva: giungono all’osservazione trascinando borse, se non valigie, piene di referti ed esami medici, richiesti nel tempo da numerosi specialisti. Difficilmente infatti si potrebbe individuare un altro campo della medicina in cui i pazienti vengono inviati, talvolta in sequenze altamente frustranti, a un numero così elevato di specialisti di estrazione diversissima: neurologi, otologi, cefalalgologi, medici ortopedici, dentisti... Accade così che vengano richiesti esami di laboratorio in quantità e che il paziente venga trattato, in successione, con farmaci di vario tipo, con pratiche chiroterapiche e manipolatorie, con agopuntura e medicina omeopatica, con placche da inserire in bocca... La negatività degli esami e lo scarso successo delle terapie rinforzano il sospetto del paziente di soffrire di un male grave, forse incurabile, tanto subdolo da non poter essere evidenziato. La compartecipazione affettiva conferisce allora al dolore una coloritura fosca, funerea, sì che esso non è più recepito come tale, ma come una minaccia incombente e totalizzante che priva la vita di ogni sua attrattiva.
  Il medico, da parte sua, può essere psicologicamente impreparato ad affrontare le difficoltà che una sintomatologia mutevole e imprevedibile gli prospetta. Non è infrequente che egli inizi un trattamento con piena convinzione di causa e ottenga, inizialmente, un risultato apprezzabile. Col tempo però il dolore può ricomparire, prima in modo subdolo e poi con la stessa intensità di prima. Questa volta però la terapia non ha più effetto, né lo hanno le altre terapie che vengono successivamente prescritte. È il momento in cui i rapporti con la paziente rischiano di deteriorarsi. Da una parte c’è la delusione di chi soffre e non vede via di uscita; dall’altra c’è la frustrazione del medico che si trova in una situazione di scacco. La tentazione di uscirne con una metaforica scrollata di spalle è molto forte. Poiché, come si è detto, spesso il paziente è donna, questa soluzione è anche suggerita, più o meno inconsciamente, da un maschilismo, larvato ma compiaciuto, che induce a considerazioni del tipo: «Le donne sono complicate! Le donne ne hanno sempre una! È un’isterica, è lei che se lo vuole!» Se poi la paziente, nubile o separata, non ha un compagno, inevitabilmente ne consegue l’ipotesi che i suoi problemi siano semplicemente ascrivibili alla mancata soddisfazione di pulsioni sessuali.
  Si noti bene, anche questo, come vedremo, può davvero rappresentare una componente del problema. Quello che è profondamente errato è l’atteggiamento quasi irridente che il medico sembra assumere nei confronti di una persona che, dopo tutto, incomincia a irritarlo. Ed è per questo che egli utilizza brutalmente la «mancanza di sesso» a fini autogiustificatori e risolutivi di una situazione conflittuale in cui si è venuto a trovare.
  La donna cefalalgica è dunque una paziente complessa. La ragione principale di tale complessità risiede nel fatto che le sue sofferenze possono essere la conseguenza di un mosaico di fattori, ampio e mutevole: disturbi dei grandi sistemi (ormonale, vascolare, nervoso), alterazioni della postura, alterazioni della funzione dei muscoli del viso, del collo e delle spalle, fattori psicologici possono variamente sovrapporsi e influenzarsi reciprocamente. A seconda del tipo di mal di testa e a seconda dei casi, l’uno o l’altro possono prevalere.
  Il fattore ormonale, insieme ai problemi vascolari e neurologici, svolge spesso un ruolo rilevante nell’emicrania. Si pensi, ad esempio, alla temperie, a volte drammatica, cui vanno incontro non poche donne durante il periodo mestruale, che può essere caratterizzato, tra l’altro, da violenti attacchi di emicrania. La crisi può ripresentarsi con caratteristiche analoghe al momento dell’ovulazione. Si tratta di pazienti in cui l’emicrania è iniziata dopo la prima mestruazione. Se essa non muta nel tempo le sue caratteristiche si può ragionevolmente sperare che scomparirà al momento della menopausa. Nel frattempo, se gli attacchi di mal di testa si limitano a due o tre al mese, si può individuare il farmaco più adatto da assumere alla comparsa di ogni crisi: oggigiorno ve ne sono di altamente efficaci nella maggioranza dei casi. Le cose si complicano se le crisi sono più frequenti. Bisognerà allora attuare una cosiddetta terapia preventiva e la scelta del farmaco dipenderà molto dalle caratteristiche della paziente.
  Altre volte, come vedremo, il dolore è psicogeno, cioè direttamente provocato da una situazione di disagio psicologico. È in questa categoria che più spesso si ritrovano quei dolori dalle caratteristiche «strane», talvolta angoscianti. Ma anche in questi casi, spesso la psiche non rappresenta l’unico elemento in causa. Inoltre, come si è detto, la paziente può soffrire, contemporaneamente o a periodi alterni, di più di un tipo di dolore.
  Di fronte a una donna che soffre di mal di testa il medico deve quindi sospendere il giudizio fino a che non abbia individuato e messo insieme tutte le tessere del mosaico. Una corretta e tradizionale indagine clinica è essenziale ma non sufficiente. Il medico dovrà acquisire una conoscenza non superficiale dello stile di vita della paziente, delle sue idee, ansie, paure, frustrazioni. In altre parole del suo «tratto».
  Queste pazienti hanno spesso molto da raccontare e sono grate di trovare chi le ascolti in modo attento e privo di atteggiamenti censori. Le storie della loro sofferenza fisica si intersecano così con tante altre storie, talvolta minime talvolta drammatiche, di vita vissuta e di disturbi o disagi subiti in silenzio, se non con un lieve senso di vergogna. Vicende che è bene conoscere prima di formulare una diagnosi definitiva e iniziare il trattamento. Poi, si potrà cominciare a giocare con la malattia una sorta di partita a scacchi, con qualche speranza di vincerla.

E SE FOSSE DEPRESSIONE?

   Si dice «depressione» e il pensiero corre a poveri disperati che nella vita hanno perso ogni interesse e che stanno meditando il suicidio, e a cliniche psichiatriche dove pazienti dallo sguardo reso allucinato dall’assunzione di quantità sempre maggiori di antidepressivi e neurolettici si aggirano senza meta, come zombi. Ne consegue la repulsione, se non il terrore per i farmaci, sostenuto dalla convinzione che una volta iniziata l’assunzione non ci si potrà più liberare. Il depresso, si pensa, ha lo sguardo perennemente triste, piange spessissimo, veste con trasandatezza. Tutto questo può essere vero, molto spesso, per quel che riguarda gli uomini. La depressione maschile infatti quasi sempre si manifesta con evidenza. Il paziente entra e ti fissa con espressione atona, la mimica del viso è ridotta, l’andatura irrigidita. Questo però non sempre vale per le donne. Dalle donne la società si attende la supina aderenza a un modello femminile stereotipato, connotato da attrattività, eleganza, spirito arguto e brillantezza. Ed ecco allora che in molte donne la depressione si maschera, cercando di celarsi al giudizio della società e del medico, e si rifugia in manifestazioni d’ansia e di disagio corporeo. Certo, non si tratta della cosiddetta «depressione maggiore». Ma esiste, molto più frequente, una depressione «minore». A questa, come spiego alle mie pazienti, sono solito attribuire tre caratteristiche distintive: la depressione minore è diffusissima, nella maggioranza dei casi non viene individuata e tanto meno curata, è relativamente facile da gestire.
  La frequenza con cui questa forma di depressione si riscontra nelle pazienti e in soggetti cosiddetti sani ha da tempo cessato di sorprendermi. Spesso, nel corso di una conferenza, affronto così questo argomento: «In questa sala siamo circa in duecento? Bene, ciò significa che almeno una cinquantina di persone soffrono di questo problema!» Ciò in genere fa sollevare un lieve brusio: non pochi sguardi, specie femminili, si rincorrono e si cercano da un capo all’altro della sala e non poche teste si chinano in contenuti cenni di assenso.
  Bene: in chi soffre di mal di testa, la depressione è ancora più frequente. In molti casi il dolore, specie se cronico e di lunga durata, si accompagna a quelli che in gergo psichiatrico si definiscono «disturbi dell’umore». Tali disturbi sono una conseguenza del dolore oppure sono loro a provocare o, quanto meno, a favorire la com-parsa del dolore? Vecchia questione, ancor oggi molto dibattuta. Certo, un dolore fisico prolungato, qualunque esso sia, altera la psiche di chi soffre. D’altra parte già i grandi del passato, a cominciare da Charcot e Freud, ci hanno insegnato che la psiche può produrre sintomi somatici. Così una paralisi, una psoriasi, un mal di testa possono essere il prodotto di un disagio psicologico. Il sintomo diventa così il modo con cui tale disagio emerge all’osservazione di quanti circondano il paziente.
  Come abbiamo visto, nel caso del mal di testa questo meccanismo, se è presente, per lo più non agisce da solo. Tuttavia va preso in considerazione.
  Può accadere che il problema venga rimosso dal medico con valutazioni frettolose quanto gratuite: «E chi non è un po’ nervoso, al giorno d’oggi», oppure «che cosa dovrei dire io, con la vita che faccio!»
  Eppure tra l’essere «un po’ nervoso» e soffrire di un disturbo dell’umore corrono delle differenze non difficili da accertare, basta un colloquio discreto ma approfondito.
  «Sì, certo, sono nervosa, ma ho le mie buone ragioni!» Quante volte ho udito le mie pazienti motivare così il loro disagio. Questo permette loro di collocarsi in una categoria di persone che si ritiene molto ampia e, di conseguenza, «normale».
  L’atteggiamento iniziale, in genere, è titubante. «Sa, non voglio tediarla con i miei problemi. Ma ho avuto una vita abbastanza travagliata!» E quando io ribatto: «Non si preoccupi, non è per curiosità morbosa di sapere i fatti suoi, ma può essere utile che lei mi racconti», allora la paziente inizia, di buona voglia, a narrare la propria vita. Ne scaturiscono le storie più disparate, spesso banali e ripetitive, talvolta ai limiti della credibilità. La separazione dal proprio marito o compagno è frequente: a cambiare sono invece modalità e cause. Talvolta accade dopo pochi anni di unione, per incompatibilità di carattere, tradimento da parte di lui, qualche volta da parte di lei. A sciogliere la coppia può però essere stata anche un’intolleranza, unilaterale o reciproca, ad avere rapporti sessuali. Ho conosciuto pazienti che soffrivano di vaginiti fastidiosissime dopo ogni rapporto con il marito, ma mai se il rapporto era extraconiugale. Altre volte la coppia si scioglie dopo lunghi anni di convivenza, quando i figli sono ormai grandi, per lo più dopo un periodo di prolungati conflitti, che non mancano di lasciare qualche traccia nella psiche della paziente. Ho ascoltato storie di mariti depressi, per lungo tempo curati e sopportati dalla propria compagna, che tuttavia hanno abbandonato non appena usciti dalla loro malattia. Altre volte la fuga è avvenuta dopo che il patrimonio della moglie era stato dilapidato. Ma sono anche storie di crisi repentine in coppie apparentemente inossidabili, conseguenti alla comparsa improvvisa di una donna giovane. Anche in questo caso le situazioni sono le più disparate: dal cambio di ruolo della segretaria appena assunta, alla fulminea infatuazione per una danzatrice thailandese, alla fuga con la fanciulla brasiliana che si accompagnava al figlio appena rientrato da un soggiorno oltreoceano.
  Ma le ragioni che possono scatenare una depressione sono le più varie. La morte del padre o del marito, un parto, un trasloco, il cambio di lavoro o il trasferimento in altra città. Altre volte ancora la paziente non ha alcuna ragione apparente per deprimersi e si vergogna ancora di più della propria condizione.
  «Non so che cosa mi capiti. In realtà non ho nessuna ragione per stare male, di essere triste. Ho un marito e dei figli che mi vogliono bene; problemi economici non ne abbiamo...»
  Sono soprattutto questi i casi in cui il fenomeno depressivo tende a celarsi dietro a disturbi di varia natura, a carico del sonno: «Faccio fatica ad addormentarmi, mi sveglio sempre stanca» o di altre funzioni, «di giorno mi prendono palpitazioni, sono sempre in ansia, sono sempre preoccupata. » A volte, quelli raccontati sono attacchi di panico, sia pure in forma velata, meno drammatici di quelli descritti nei testi.
  «Non so perché, ma se penso a qualcosa che dovrò fare, o anche senza alcuna ragione, mi prende un’angoscia improvvisa, le mani mi sudano, il cuore mi batte forte...» Le oscillazioni di peso costituiscono un altro prezioso indicatore: «Non me ne parli! Ho preso otto chili nell’ultimo anno! Eppure non è che io mangi molto, più che altro, forse, mangio disordinatamente.» Approfondendo l’indagine può emergere il fatto che la paziente assume spesso piccole quantità di cibo fuori dei pasti, spesso dolci, cioccolato in particolare, e che, così facendo, attenua il suo senso d’ansia. Non è infrequente che ciò avvenga di notte.
  Una volta delineato il problema della paziente, l’ultimo ostacolo da superare è convincerla a curarsi. Infatti, le stesse ragioni che la rendono recalcitrante ad ammettere il suo stato, le incutono un senso di repulsione verso la terapia, specie se farmacologica: «No, io queste cose non le prendo... non voglio abituarmi... ce la devo fare da sola!»
  A queste obiezioni ribatto con un’argomentazione che si rivela spesso efficace: «Mi scusi, se lei avesse un dito rotto e le dicessero che va steccato, lo steccherebbe?»
  «Certo, che lo steccherei.»
  «E perché invece non direbbe: “No! Non lo stecco, ce la devo fare da sola!”»
  In genere mi risponde uno sguardo stupito e interdetto, che mi permette di proseguire: «Vede, non voler assumere farmaci per curare il suo problema non è cosa saggia o eroica, è semplicemente demenziale, come lo sarebbe non voler steccare un dito fratturato. I farmaci, assunti al mo- mento giusto e in quantità giusta, la curano senza provocare assuefazione o dipendenza. In più, associandoli ad altri mezzi di terapia non farmacologica, è spesso possibile ridurne la quantità. Badi che il suo problema è molto diffuso... chissà quante delle sue amiche ne soffrono. E, in genere, a questo livello, è abbastanza facile da curare.» Quasi sempre allora la paziente manifesta un certo sollievo e accetta di buon grado di intraprendere la terapia.
  Ovviamente esistono mal di testa senza depressione e depressioni senza mal di testa. Resta il fatto che, quando è grave e prolungato, il dolore al capo si accompagna con una certa frequenza a un disturbo depressivo, in particolare in pazienti che soffrono di un mal di testa pressoché perenne: la cosiddetta cefalea cronica quotidiana. Si tratta di donne che presentano uno stato di sofferenza continuo: cambiano solo l’intensità del dolore e, a volte, le sue caratteristiche. In questi casi ritengo sia una buona regola iniziare a curare il disturbo dell’umore limitandosi a gestire le crisi più gravi di cefalea con un farmaco appropriato. Ciò permetterà di valutare la relazione tra i due problemi e di trattare in seguito, più adeguatamente, la cefalea residua.

STORIE DI EMICRANIA

  «Quando comincia la crisi, dottore, creda, mi prende una gran paura. Perché io so che dopo un po’, dieci o venti minuti al massimo, soffrirò di un dolore atroce. E non c’è nulla che io possa fare, anche se mi riempio di pillole e di pastiglie fino a intontirmi!»
  Chi mi parla è una donna ancora giovane, ha viso squadrato, fronte già solcata da rughe piuttosto profonde.
  «Dove le inizia il dolore?» le chiedo.
  «Inizia qui» e si tocca con due dita la tempia destra. «Più raramente a sinistra: ma sempre da un lato solo.»
  «E rimane fermo lì?»
  «No, purtroppo! Prende a girarmi per tutta la testa.» Le do in mano un foglio in cui è raffigurata una testa di profilo e le chiedo di disegnarmi le zone dove il suo mal di testa si diffonde. La donna traccia una serie di linee semicircolari che partono dalla tempia, si dirigono indietro verso la nuca e poi ripiegano in avanti. Una linea va verso l’alto, in direzione del vertice del capo, per poi proseguire sulla fronte; un’altra si fa strada direttamente in avanti verso l’orecchio e quindi attraversa il bulbo oculare, un paio di altre linee infine si perdono in basso, verso la mandibola e il collo. La paziente esamina il suo elaborato con occhio critico: non sembra soddisfatta. Riprende la penna e prolunga le prime due linee fino quasi a farle incontrare; poi, calcando la mano, traccia alle loro estremità due frecce le cui punte si toccano.
  «Ecco» esclama, «a questo punto... a questo punto...»
  «Che cosa capita, a questo punto?» le domando.
  Per tutta risposta la paziente riprende il foglio in mano e traccia una riga segmentata che dalla punta delle frecce si dirige verso l’esterno del capo. Poi vi scrive sopra a grossi caratteri in stampatello: BANG!
  «Ecco, che cosa capita! Scoppia la guerra. Sì, non c’è altra espressione: è la guerra dei due mondi!»
  «Che cosa fa, il dolore, le pulsa, la stringe?»
  «Pulsare è dir poco. Mi comincia battere qui» e segna con la punta della penna la zona della fronte dove ha fatto incontrare le frecce, «poi si diffonde a tutta la testa. E batte, batte tanto che giurerei che la testa mi stia per scoppiare. Intanto mi prende una gran nausea, spesso vomito, sento ronzii, ho le vertigini, sudo, tremo, la vista mi si appanna, vedo dei luccichii, dei punti neri, l’occhio si arrossa e lacrima abbondantemente.»
  «E lei, quando ha questi attacchi, che cosa fa?»
  «Che cosa vuole che faccia?! Mi sdraio in una camera al buio, a soffrire. Sto immobile, tutto mi disturba. Guai se c’è luce, rumore... anche gli odori non li sopporto più!»
  «Quanto le durano queste crisi?»
  «Dipende, quando ho fortuna solo due o tre ore, altrimenti mi possono durare fino a otto ore e più, allora sono disperata, mi riempio di calmanti fino a instupidirmi, e spero di prendere sonno e che quest’inferno mi passi.»